Mercoledì 30 Aprile 2025
Vai al Contenuto Raggiungi il piè di pagina
A partire dall'analisi delle dinamiche culturali ed economiche locali, la Camera di Commercio Italiana a Tokyo ha stilato una serie di consigli per gli imprenditori e i professionisti che intendono investire nel mercato nipponico.
L'economia giapponese è la terza al mondo dopo Stati Uniti e Cina in termini di PIL e oltre alle potenzialità come mercato di destinazione che, seppur ridimensionate rispetto agli anni d’oro della bubble economy, continuano a fomentare le fantasie di produttori di beni di consumo, finalmente anche la sua attrattibilità in termini di investimento sta finalmente ricevendo l’attenzione che merita in ambito internazionale.
Un ampio e sofisticato bacino di consumatori che mantiene elevatissimi i criteri dell’offerta qualitativa e la velocità di cambiamento delle tendenze di acquisto, un sistema legislativo ben solido che offre una ineguagliabile garanzia -basti pensare ai diritti di proprietà intellettuale, un’offerta di personale altamente specializzato ed estremamente affidabile ed una capacità di ricerca e sviluppo decisamente elevata. A questo va aggiunta non tanto la progressiva acquisizione a tutti i livelli di nuove competenze tecnologiche sia hard che soft ma soprattutto l’armoniosa convivenza tra il fattore umano e quello tecnologico. La Society 5.0. giapponese, infatti, risulta essere molto più consapevole e pragmatica, a differenza di molti Paesi occidentali dove l’euforia di novità tecnologiche si scontra con la preoccupazione di un inesorabile e progressivo esubero di forza lavoro.
Secondo il Global Business Complexity Index 2023 il Giappone è stato stimato 43simo su circa 80 mercati per l’indice di complessità del business environment. Tale stima si basa essenzialmente sulla valutazione di aspetti burocratici legislativi, contabili, tassativi e di regole impiegatizie ma non prende in considerazione l’aspetto socio-culturale che probabilmente porterebbe il Giappone ai vertici della classifica.
Quella giapponese è senza ombra di dubbio una delle società più complesse al mondo, regolamentata da un capillare sistema di regole scritte e non scritte intrinseche alla natura stessa dell’essere -o meglio del sentirsi- nihonjin, giapponese. Avvalersi del supporto di un partner locale per intraprendere un’avventura commerciale in Giappone non è raccomandabile. È fondamentale. Decidere di farne a meno significa mettere a rischio non soltanto l’esito della singola azione con un elevato dispendio di energie, di tempo e di investimenti ma a volte può significare bruciarsi il terreno anche per azioni future.
Abbiamo deciso di dedicare questo spazio per condividere con voi l’esperienza maturata in oltre 50 anni di attività camerale in Giappone, cercando di far luce di volta in volta su aspetti e dinamiche commerciali e culturali che non possono e non devono mai essere considerati singolarmente quando si affronta un mercato straniero.
C'era una volta un consumatore giapponese ciecamente innamorato del nostro Paese che acquistava senza badare a spese marchi made in Italy, sfoggiati pubblicamente e capaci di catapultare il possessore in un segmento della società molto ambito: l'altolocato e culturalmente ricco. Stiamo parlando di 40 anni fa, quando l'Italia era riuscita a ritagliarsi un segmento di tutto rispetto nel mercato dei beni di consumo giapponesi seguendo l'esempio francese che ci aveva preceduto di qualche decennio e che aveva dettato i criteri di uno stile europeo, spezzando così la supremazia degli Stati Uniti. E così per oltre 3 decenni molti produttori italiani hanno vissuto il sogno commerciale che pochi altri mercati globali riescono a concedere: alimentare la bramosia di italianità di clienti sofisticati, fedeli e culturalmente strutturati per apprezzare a fondo il valore della nostra artigianalità. Poi ad un tratto gli ordini diminuiscono e la storia d'amore sembra finire nello stupore più totale del produttore italiano.
Al contrario lo stupore dovrebbe essere dovuto alla longevità del nostro brand nazionale in Giappone. Quarant'anni d'amore incondizionato sono rari anche nelle migliori coppie che richiedono a prescindere una cura e un'attenzione costante. L'Italia continua ad essere molto apprezzata dai giapponesi ma le motivazioni risiedono sempre di più nelle caratteristiche intrinseche del prodotto piuttosto che nella forza del brand Italia. Funzionalità, sostenibilità, un equilibrato rapporto costo-qualità e soprattutto "quel qualcosa in più" che ogni distributore giapponese richiede alla controparte italiana. Per raccontare quel qualcosa in più si parte dalla contestualizzazione del prodotto, recuperando e valorizzando quei dettagli storici, culturali e manifatturieri che più di altri fanno presa sull'acquirente giapponese. Troppo spesso ci si dimentica che Italia e Giappone sono due mondi molto lontani culturalmente ma vicini per valori di riferimento, e molto spesso in questi casi la compensazione emotiva è il miglior strumento a disposizione per impostare una strategia di comunicazione. E per poterlo nutrire emotivamente, quel mercato lo si deve conoscere profondamente.
Il primo appunto di questo diario di viaggio verso il Giappone, è la conoscenza imprescindibile di questo Paese tanto complesso quanto fantastico. E la conoscenza va ben oltre gli spunti che una scheda Paese riescono a concedere. Conoscere significa cercare domande all’interno di risposte, dedicare tempo e attenzione ai dettagli, non dare niente per scontato, non semplificare e soprattutto andare oltre l’eurocentrismo che ci contraddistingue. Partiamo da qui: non improvvisiamo ma facciamo della conoscenza attuale e consapevole del mercato di destinazione il primo vero investimento, andando oltre i luoghi comuni e ricordandoci sempre che la velocità di cambiamento di un mercato evoluto come quello giapponese è estremamente elevata.
Che l’abito non faccia il monaco è un proverbio quanto mai valido ed attuale in Giappone, Paese dalle mille contraddizioni e dalle mille sfumature socioculturali. In più occasioni in questi decenni di vita giapponese ho assistito a valutazioni errate da parte di imprenditori italiani che incontrando potenziali partner giapponesi hanno ponderato il loro giudizio su criteri superficiali e di natura eurocentrica che in ultima istanza hanno contributo a compromettere la partita commerciale.
La cultura giapponese predilige un approccio interpersonale soft basato sul concetto di wa, letteralmente armonia, che non deve mai essere compromessa in ambito sociale con atteggiamenti aggressivi, troppo esuberanti o anche solo egocentrici. Ancora oggi agli studenti delle elementari si insegna che il chiodo che fuoriesce dall’asse deve essere battuto per non creare scompensi con gli altri chiodi. E quindi in completa controtendenza con il mondo occidentale che legittima sempre di più autoreferenzialità ed una vanità ostentata, l’autostima o anche una consapevolezza troppo marcata di sé stessi sono giudicati elementi negativi della personalità. Non che i giapponesi siano privi di tali caratteristiche ma esternarle non è socialmente accettabile. Anzi, chi più è/possiede meno mostra. E allora non sorprende che al primo appuntamento una figura di rilievo come il presidente di un’azienda giapponese possa assumere toni sottomessi e defilati dando l’impressione di non avere grandi carte da giocare.
E’ importante non sottovalutare il primo appuntamento e soprattutto quella manciata di secondi necessari ad inviare quelle informazioni al tuo cervello che ti permetteranno di farti un’idea, giusta o sbagliata, sulla persona che hai davanti, incasellandola in un’immagine che poi sarà molto difficile cambiare. E se è naturale ed innato per ognuno di noi avere pregiudizi, esternarli anche con atteggiamenti apparentemente innocui denota oltre a maleducazione mancanza di professionalità. E’ su questo che dobbiamo lavorare.
Il biglietto da visita in Giappone è molto più di un nome ed un indirizzo. E’ il permesso che viene concesso ad entrare nello spazio personale di qualcuno. E’ un invito e insieme l’essenza di un titolo, di una professionalità e di una persona. Non prestare la dovuta attenzione al biglietto da visita di qualcuno significa non esserne interessato, denigrandone la posizione. E’ per questo che tutti gli appuntamenti iniziano con uno scambio di biglietti, passati a due mani con leggero inchino, soffermandosi con lo sguardo per qualche secondo sul biglietto. Dopo di che, il biglietto viene appoggiato sul tavolo per tutta la durata della conversazione.
La conversazione, prima di entrare nel dettaglio operativo e commerciale dovrebbe permanere ad uno stadio generico creando le premesse di una discussione rilassata.
Fare domande di cultura generale evitando di esprimere commenti trancianti o riferimenti a situazioni di geopolitica attuale dimostrano interesse e al contempo danno modo eventualmente di rimodellare l’immagine che ci si è fatti al momento dell’incontro.
Presentare la propria azienda o il proprio prodotto significa dare informazioni che aiutino l’interlocutore a contestualizzare e a fare valutazioni pratiche, evitando sproloqui o autocelebrazioni e ricordando sempre che si ha a che fare con una cultura completamente diversa da quelle incontrate fino ad ora con parametri e codici diversi.
I feedback che si ricevono durante questo primo incontro sono estremamente importanti per il futuro di un brand straniero in Giappone se tenuti in considerazione ed implementati nel tempo. Ma la mancanza di commenti non denota necessariamente mancanza di interesse. A volte, proprio quando non c’è interesse, l’operatore giapponese tende a ridondare nel complimentare un certo prodotto per non risultare offensivo. Domande mirate e poco apprezzamento potrebbero invece essere sintomatici di una valutazione in corso.
Anche in questo caso, l’atteggiamento migliore è mantenere compostezza senza rinunciare alla vitalità e alla simpatia che ci contraddistingue ma evitando di esprimere giudizi e giungere a conclusioni che nella maggior parte dei casi sarebbero affrettate.
“Se ce la fai in Giappone, ce la puoi fare ovunque” questo è un assioma ormai consolidato per descrivere la difficoltà legata alla conquista del mercato giapponese. Le barriere sono di varia natura: la lontananza fisica, la complessità del sistema distributivo, il livello di saturazione, la svalutazione dello yen degli ultimi anni, la velocità di cambiamento delle tendenze… ma c’è un’altra barriera che mette a dura, durissima prova anche l’imprenditore più navigato: la quantità (e qualità) di pazienza richiesta.
Se, ad esempio, i grandi eventi fieristici in occidente fungono da piazza di incontro tra domanda e offerta dove spesso gli accordi prendono forma, in Giappone sono piuttosto delle vetrine alle quali è importante partecipare non soltanto per mettere in mostra la propria offerta merceologica ma soprattutto per rassicurare l’operatore circa la serietà e lungimiranza con la quale guardiamo al mercato giapponese.
Se è vero che i primi anni di qualsiasi rapporto commerciale sono i più critici perché necessari per affinare le modalità di dialogo ed i margini di collaborazione, in Giappone il livello di criticità raggiunge livelli straordinari. Le storie che in questi anni ho sentito raccontare da produttori italiani circa le richieste delle loro controparti giapponesi hanno dell’inverosimile, almeno nella loro visione della realtà: dalla richiesta di forniture di bottoni in corno con le stesse identiche venature, alla richiesta di reso su interi container di prodotti da GDO a causa di microscopiche defezioni sull’etichetta, come un graffio o un mancato allineamento. Eppure, ciò che a noi sembra eccessivo in Giappone rientra nella norma del fare business. Sta a noi spiegare che la personalizzazione di un prodotto artigianale dovuta a fattori naturali è parte della forza e attrattività di quel prodotto. Allo stesso modo sta a noi capire che anche un prodotto a basso costo destinato alla grande distribuzione o all’ho.re.ca come una lattina di pelati richiede un alto livello di decoro estetico.
E per concludere c’è la concezione del lavoro che seppur negli ultimi anni abbia subito grandi trasformazioni risulta ancora oggi essere il valore più importante nella società giapponese, ed il modo di porsi nei confronti della quotidianità lavorativa è molto diverso da quello italiano: lunghe ore di lavoro, scarsa attitudine al multitasking e al problem solving, tendenza a non volersi assumere alcuna responsabilità anche a breve termine. Tutto questo agli occhi di un italiano si traduce molto semplicemente con scarsità di efficienza ed i comportamenti che ne derivano oscillano tra lo strano e l’impossibile da accettare. Infinite mail per definire dettagli che sembrano irrisori, richieste all’apparenza poco attinenti all’argomento trattato ed in generale una lentezza decisionale pachidermica. E’ in questi casi che la pazienza viene messa a prova peggiore, quando non riusciamo a trovare una spiegazione razionale a dei comportamenti inconsueti.
Atteggiamenti di questo tipo possono all'apparenza sembrano privi di fondamento per un Occidentale, ma sono tutto tranne che casuali. Si tratta infatti di step essenziali, delle mini "prove", volte a consolidare un sano rapporto con l'operatore giapponese. Se si riesce a portare la giusta dose di pazienza e se si riesce ad accettare un punto di vista diverso dal nostro, per quanto a volte difficile da comprendere, allora si riuscirà veramente a conquistare la fiducia della controparte nippoca. E, una volta che questo accadrà, si inizierà a notare che tutto procede in maniera molto più liscia e consolidata rispetto all'inizio.
Rimboccarsi le maniche, dunque, armarsi di santa pazienza, e cercare di mantenersi il più aperti possibile ad approcci e punti di vista diversi dal nostro. Le soddisfazioni pronte ad aspettarci stanno poco più in là, e sono veramente tante.
(Contributo editoriale a cura della Camera di Commercio Italiana in Giappone)